
L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Giuditta decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Maria Cristina Terzaghi, docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università degli Studi Roma Tre e membro del Comitato Scientifico del Museo e Real Bosco di Capodimonte, ci parla di Giuditta decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi, opera iconica della pittura barocca di una delle rare e più straordinarie pittrici del Seicento europeo, protagonista di una drammatica vicenda.
Nel buio di un’indecifrabile ambientazione la giovane e bella Giuditta aiutata dalla fantesca Abra si avventa sul generale assiro Oloferne, colpevole di avere assediato il popolo di Israele.
Lo sorprendono nel sonno, e lottando con tutte le forze per resistere al suo agitarsi disperato, gli staccano la testa con la scimitarra.
Il sangue del tiranno sgorga a fiotti macchiando le candide lenzuola con un realismo tanto crudo da entrare per sempre nell’imagerie popolare.
La tela, insieme all’altra versione autografa del dipinto, che si trova agli Uffizi, è divenuta infatti una sorta di icona della pittura barocca, in virtù dell’orrore e della forza drammatica ma anche dell’esperienza autobiografica che vi si è letta in filigrana.

Giuditta decapita Oloferne
Firenze, Galleria degli Uffizi
Essa venne realizzata da una delle rare e più straordinarie pittrici del Seicento europeo, protagonista di una drammatica vicenda.
A 18 anni, infatti, quando Artemisia abitava a Roma insieme al padre Orazio, anch’egli pittore di grido, e ai tre fratelli maschi, tutti più piccoli, aveva subito violenza da parte di Agostino Tassi, un artista livornese socio del padre.
All’epoca in cui si svolsero i fatti, i due pittori lavoravano per Paolo V nel Palazzo del Quirinale ad affreschi oggi perduti.
Promettendo di sposare Artemisia, Tassi avviò con lei una relazione che durò qualche tempo.
Una volta scoperto che in realtà Agostino si era già unito in matrimonio quando si trovava in Toscana, e che dunque era impossibile per lui sposare Artemisia, Orazio Gentileschi lo trascinò in un processo per violenza carnale contro la figlia, al termine del quale Tassi, giudicato colpevole, fu condannato all’esilio, senza però mai scontare la pena.
L’interpretazione che la pittrice offre del grande tema biblico di Giuditta e Oloferne, molto amato dalla pittura occidentale, tanto che la prima raffigurazione nota compare già nell’870 nella Bibbia di Carlo il Calvo, ha suggerito di leggervi un’eco della violenza subita e del desiderio di vendetta della pittrice.
Il tema è tratto dall’Antico Testamento: il popolo ebraico, assediato dal generale assiro, Oloferne, aveva deciso di capitolare entro cinque giorni, a meno di un intervento divino.
Giuditta, giovane vedova ebrea, si offre volontaria per andare nel campo avversario.
Accompagnata solo dalla fedele serva, Abra, abbandona i panni vedovili, abbigliandosi sontuosamente, con vesti preziose e gioielli, messe in risalto dalla narrazione biblica e dalla stessa Artemisia, la cui eroina indossa un sontuoso abito di un blu smaltato guarnito d’oro.
Giunta nel campo nemico, Giuditta si presenta al generale con la scusa di svelargli il punto debole degli Ebrei.
Oloferne, ammaliato dalla giovane, offre un banchetto in suo onore.
I due restano soli nella tenda del condottiero assiro che, ebbro di vino, crolla in un sonno profondo mentre Giuditta lo decapita, attuando così il suo stratagemma.
L’aiuto dell’ancella Abra è un’invenzione di Artemisia: secondo l’Antico Testamento invece la donna era rimasta fuori dalla tenda, pronta a nascondere in un sacco la testa del generale.
Le precedenti narrazioni preferivano dunque immortalare la giovane che esce con la testa del tiranno, porgendola alla servente.
Fa eccezione Caravaggio, che in un celeberrimo dipinto oggi conservato a Palazzo Barberini, databile allo schiudersi del XVII secolo, rivoluziona questa idea, mettendo in scena una vera e propria decapitazione, sotto gli occhi inorriditi di Abra e il ribrezzo della stessa Giuditta.

Giuditta decapita Oloferne
Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini
Tuttavia, il focus del dipinto di Caravaggio era l’urlo straziato di Oloferne, calibrato dall’intatta bellezza dell’eroina, Artemisia si concentra invece sulla violenza e sullo sforzo fisico delle due donne, che aiutandosi l’un l’altra, riescono ad aver ragione del tiranno.

Giuditta decapita Oloferne
(1613 ca.), olio su tela, cm 158,8 x 125,5
Museo e Real Bosco di Capodimonte
In un mondo in cui le rappresentazioni visive erano scarse – al contrario del nostro, dove lo spettacolo della violenza è quotidianamente trasmesso dai media – l’opera doveva apparire di una forza sconcertante, tanto che una delle fonti più antiche Filippo Baldinucci, parlando della versione fiorentina della tela, sottolinea il terrore che incuteva l’immagine:
«opera al certo, che ogn’altra di sua mano avanza in bontà, e tanto ben pensata, e si al vivo espressa, che solamente il mirarla così dipinta mette non poco terrore».
Rispetto alla versione degli Uffizi, la tela di Napoli appare più cruda, complice anche la decurtazione subita, e la cromia più drammatica delle vesti.
Il dibattito sulla cronologia delle due opere è stato inizialmente piuttosto acceso, dividendosi in chi dava la precedenza alla tela fiorentina, e chi a quella partenopea.
Da questo punto di vista le indagini tecniche condotte sulla tela di Capodimonte si sono rivelate molto interessanti, mettendo in luce numerosi pentimenti, che dimostrano quanto la pittrice abbia faticato nella concezione dell’opera.
Il dipinto degli Uffizi, invece, probabilmente concepito a posteriori, è privo di tutto questo rovello.
Tanto che si è ipotizzato che la pittrice riutilizzò per la tela degli Uffizi i cartoni che le erano serviti per dipingere il quadro oggi a Napoli.
Per orientarci sulla datazione della tela, dobbiamo ricordare che il processo per lo stupro, fu celebrato nel 1612, e pur concludendosi con la colpevolezza di Tassi, lasciò irrimediabilmente macchiato l’onore di Artemisia.
Il padre, Orazio, cercò dunque di porre rimedio combinando, a processo ancora in corso, il matrimonio della figlia con il fratello di uno dei testimoni, Pierantonio Stiattesi.

Ritratto di Orazio Gentileschi
London, British Museum
Le nozze furono celebrate in tutta fretta a Roma, ma per Artemisia era meglio cambiare aria, e i due sposi si trasferirono a Firenze, accompagnati dalla lettera di raccomandazione che Orazio aveva indirizzato alla granduchessa di Toscana, di cui si dichiarava suddito, celebrando le doti di pittrice della figlia.

Autoritratto come suonatrice di liuto
Hartford (Conn.), Wadsworth Athenaeum
Firenze fu un approdo felice per Artemisia: alla corte granducale ella poté infatti ottenere quell’educazione artistica e letteraria che le erano mancate a Roma, tra le mura della casa paterna.
La tela è generalmente collocata al principio del soggiorno fiorentino, sull’onda emotiva del processo, nonostante recentemente sia stata avanzata l’ipotesi di spostare il dipinto più avanti nel 1617.
Nonostante l’indubbia dipendenza da Caravaggio, l’immagine di Artemisia ha una sua autonomia inventiva ed interpretativa.
In questa personale lettura dell’episodio biblico avrebbe potuto giocare il ricordo del trauma subito?
Certamente nella deposizione al processo, la giovane pittrice dettaglia in modo puntuale la sua lotta contro l’aggressore.
Per un’interpretazione corretta della visione di Artemisia, è bene comunque tentare di immedesimarsi nella mentalità seicentesca.
Un’acuta storica americana, Elizabeth Cohen, sottolinea come, pur nel trauma di uno stupro, per la mentalità del Seicento il nesso tra l’io e il corpo era meno forte di quello vissuto da un uomo o una donna del XXI secolo, per cui il dramma più acuto di Artemisia fu nella violazione della reputazione, più ancora che in quella del corpo.
A fronte di simili considerazioni, è chiaro quanto sia difficile giudicare oggi quello che questo episodio significò nella vita della donna, anche se non va sottovalutato.
Certamente la violenza risulta un oltraggio che ha pochi eguali, e nella vita della giovane dovette comunque rappresentare la prima di una serie di disillusioni nei confronti del mondo maschile.
Il padre Orazio con il processo mise a repentaglio la sua reputazione, i fratelli la insidiarono per recuperare i soldi versati dal padre per la sua dote per sperperarli al gioco, il marito visse alle sue spalle, anziché provvedere alla famiglia.
Artemisia imparò dunque a bastare a se stessa vivendo del proprio lavoro che la introdusse nel mondo privilegiato delle corti europee.
Fu questo il suo vero teatro, dove si guadagnò ammiratori, fu cantata da poeti che ne esaltavano il genio.
Totalmente indipendente dal maschile, che dominava invece la vita delle donne dell’epoca, capace anzi di manipolarne la forza, non c’è dubbio che la pittrice poté sentirsi la vera Giuditta del suo tempo.

Giuditta decapita Oloferne
(1613 ca.), olio su tela, cm 158,8 x 125,5
Museo e Real Bosco di Capodimonte
Il testo di Maria Cristina Terzaghi è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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