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L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… l’Elemosina di Sant’Elisabetta d’Ungheria di Bartolomeo Schedoni

L’opera di cui ci occuperemo oggi per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… è l’Elemosina di Sant’Elisabetta d’Ungheria (1610-11), che fu eseguita da Bartolomeo Schedoni (Modena 1578 – Parma 1615), artista ufficiale, dal 1607, della corte di Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza.

Il testo di oggi è a cura di Marco Liberato, storico dell’arte del Dipartimento di Documentazione del Museo e Real Bosco di Capodimonte.

 

Bartolomeo, secondo la bibliografia, compì un viaggio a Roma, per volontà dallo stesso duca, per studiare i grandi maestri della pittura italiana; questa scelta incarna il desiderio del principe che, attraverso l’arte, voleva avvalorare di sé la figura di fedele alleato del Papa Paolo V, di filantropo e di benefattore del popolo, fondando e sostenendo le istituzioni assistenziali della città e affidando al linguaggio artistico, la memoria idealizzata delle proprie iniziative politico-sociali, in risposta all’eresia protestante.

Tutto questo progetto è scaturito mediante il supporto delle opere pittoriche dello Schedoni, a partire dal ciclo realizzato per il convento dei Cappuccini di Fontevivo; qui il giovane artista esegue numerose tele, tra le quali spicca la splendida Deposizione di Cristo nel sepolcro (1606, oggi esposto nella Galleria di Palazzo della Pilotta, Parma).

 

Bartolomeo Schedoni
(Modena 1578 – Parma 1615)
Deposizione nel sepolcro di Cristo
Parma
Palazzo della Pilotta

 

Il tono che viene adottato è quello di un linguaggio pittorico calibrato, delicato ed ossequioso, didattico, una sorta di sermoni figurati per il popolo analfabeta, che pone le basi nella pittura devota di Correggio, che Schedoni conosce alla perfezione, aggiornato verso il moderno linguaggio naturalistico dei Carracci.

Ritornando all’opera odierna ricordiamo che le prime fonti inventariali sul dipinto risalgono al 10 ottobre 1611, quando Flaminio Giunti, Guardarobiere del duca Ranuccio I Farnese, riceve dal cavaliere Alessandro Danella due dipinti, un San Sebastiano (probabilmente realizzato per l’abbazia di Fontevivo, oggi in deposito al palazzo Reale di Napoli) e Un quadro grando con un orbo, un Putto che lo conduce, et una donna che li fa elemosina con un putino con cornice nera.

Qualche anno dopo il dipinto è poi descritto nel palazzo del Giardino di Parma (inv. 1680, n. 157) e successivamente, almeno dal 1708, nella Galleria di Palazzo della Pilotta (inv. 1708, n. 57).

Trasportato a Napoli nel 1734 per volontà di Carlo di Borbone, insieme ad altri dipinti di Schedoni e a gran parte della collezione Farnese, prima a Palazzo Reale e poi nella nuova residenza di Capodimonte, è prelevato nel 1799 dai francesi e portato a Roma in deposito nell’arsenale di Ripagrande.

Recuperato nel 1800 da Domenico Venuti, direttore dal 1779 della Real Fabbrica di Napoli di porcellane, è inviato a Palermo nel 1806, per timore di Ferdinando IV di Borbone che l’opera potesse essere nuovamente rubata.

Rientrata a Napoli nel 1816, al Real Museo Borbonico (attuale Museo Archeologico Nazionale di Napoli, MANN), è dal 1957 definitivamente al museo di Capodimonte.

Il soggetto, fino alla brillante monografia di Negro e Roio (2000), è sempre stato descritto come la Carità, confusa con l’altra opera, sempre di provenienza farnesiana, l’Incontro di S. Anna e San Gioacchino alla porta Aurea (detto anche La Carità grande, Napoli, palazzo Reale), che già nei vecchi inventari settecenteschi è descritto come Elemosina di Santa Elisabetta, fraintendendo la presenza di ammalati e indigenti, col tema precipuo della iconografia della santa misericordiosa.

 

Bartolomeo Schedoni
(Modena 1578 – Parma 1615)
La Carità – Incontro di Sant’Anna e San Gioacchino alla Porta Aurea
Napoli
Palazzo Reale

 

La breve vita di Elisabetta, figlia del re d’Ungheria Andrea II, inizia, in giovane età, col matrimonio a tredici anni con Ludovico, figlio ed erede del sovrano di Turingia.

A venti anni, rimasta vedova, decide di prendere i voti di francescana dell’ordine delle terziarie, uno dei tre ordini fondato da san Francesco d’Assisi, dedicando i suoi sforzi e gli ultimi anni di vita, morirà a soli 24 anni nel 1231, spogliandosi dei propri averi, per costruire un ospedale a Marburgo, ove sostenere i poveri e gli ammalati.

L’immagine, interpreta il momento che precede uno dei due eventi che servirono alla canonizzazione della santa, nel 1235, il Miracolo delle rose.

Per celarsi al marito, il quale non condivide la misericordia della moglie, Elisabetta in tarda notte nasconde i suoi splendidi capelli biondi con un turbante, e gira per la città per offrire il pane atto a sostentare i poveri e gli infermi.

Scoperta dal marito, che le intima di mostrargli cosa porti in grembo, la donna invoca il signore, e osserva miracolosamente il pane trasformarsi in rose, così da permetterle di proseguire le sue opere di carità.

Nella tela, in primo piano, spicca la figura di un bimbo, forse l’allegoria della misericordia del Vestire gli ignudi.

La santa, che assume la funzione di mediatrice della misericordia divina, allo stesso modo della chiesa cristiana, sta porgendo ad un mendicante e ad un cieco, che ostenta verso l’osservatore i suoi bulbi oculari malati, il pane della carità.

Secondo una recente ipotesi, affrontata da Francesca Dallasta nella monografia sul pittore, l’opera sarebbe collegabile, insieme ad altri due dipinti (entrambi conservati nel Museo e Real Bosco di Capodimonte), ad un ciclo, verosimilmente non concluso, raffigurante in modo allegorico le istituzioni assistenziali (gli ospedali) presenti in città, economicamente aiutate, e in parte dirette, dal Duca Ranuccio.

La prima opera del ciclo sarebbe il San Sebastiano curato da Sant’Irene; il santo, invocato dai fedeli contro il morbo pestilenziale, alluderebbe all’Ospedale degli Appestati (l’ospedale di San Lazzaro); il Precetto del Faraone richiamerebbe invece l’Ospedale gli Esposti, cioè dei bambini abbandonati, poiché il protagonista del dipinto, Mosè, subisce la stessa sorte, essere esposto, a causa dell’ordine del Faraone d’Egitto Seti di gettare nel Nilo ogni figlio maschio nato dagli Ebrei (Esodo, 1,22).

 

Bartolomeo Schedoni
(Modena 1578 – Parma 1615)
Il Precetto del Faraone
Napoli
Museo e Real Bosco di Capodimonte

 

Infine il terzo esempio di umiltà, la Carità di Santa Elisabetta d’Ungheria, corrisponderebbe ad una chiesa con annesso ospedale per l’assistenza degli ammalati più poveri, gestito dalle Terziarie francescane e dedicato alla santa eponima.

Infatti, nel dipinto la figura femminile si rivolge a tre personaggi che simboleggiano le categorie dei bisognosi: l’ammalato (il cieco), il povero questuante, che tende il cappello, e il bambino, in primo piano, che rappresenta l’orfano, probabile richiamo alla Pia Casa dei Mendicanti fondata nel 1593, a pochi anni dalla crisi agraria che investì questi luoghi (1590-92).

 

Bartolomeo Schedoni
(Modena 1578 – Parma 1615)
Elemosina di Sant’Elisabetta d’Ungheria
Napoli
Museo e Real Bosco di Capodimonte

 

Questa ipotesi potrebbe anche essere letta in una seconda chiave, quale allegoria del giovane primogenito Alessandro Farnese, nato il 5 settembre del 1610, a dieci anni dal matrimonio tra Ranuccio e Margherita Aldobrandini; infatti si è a conoscenza del fatto che, in occasione del parto, la coppia ducale avesse organizzato festeggiamenti, processioni ed elargizioni di elemosine per molti giorni.

Il dipinto sarebbe, quindi, un ex voto, a ringraziamento della nascita del piccolo; l’infante indossa un giacchino dai colori gialli e blu, evidente richiamo al ducato di Parma, del quale sarebbe stato vestito Alessandro alla morte del padre; mentre la sottoveste bianca, la cordicella rossa, che fissa gli abiti, indicherebbero l’intervento di santa Elisabetta, allegoria francescana della carità, che come nel miracolo della trasformazione del pane in rose bianche e rosse, intercede alla nascita del bimbo.

Il legame con le altre due tele sarebbe quindi il seguente: con il San Sebastiano curato della pie donne (rimasto incompiuto per la morte del maestro), l’evento miracoloso è legato alle vicende personali di Ranuccio, guarito, come ricorda Monsignor Carissimi nell’Orazione funebre stampata nel 1623, tramite l’intercessione del santo, da una malattia sconosciuta.

 

Bartolomeo Schedoni
(Modena 1578 – Parma 1615)
San Sebastiano curato dalle pie donne
Napoli
Museo e Real Bosco di Capodimonte

 

Nel Precetto del Faraone, si legge invece la richiesta di mettere nelle mani di Dio la salute del pargolo, a seguito della sopraggiunta sordità di Alessandro (come Iochebed, la madre di Mosè, che affida al Nilo la salvezza del figlio).

Tutti e tre i dipinti sono comunque uniti dalle analoghe misure (180×130 ca.), e il tema sotteso alle composizioni è a questo punto esplicitamente legato all’esempio di santità vissuta nella laicità.

Infatti questo mini-ciclo racchiude in sé la particolare dedizione dei Farnese per le opere di misericordia, in particolar modo la distribuzione del pane ai poveri da parte di Ranuccio I in occasione della funzione delle Quarantore, l’adorazione per suddetto tempo del Santissimo Sacramento, introdotta a Parma da Maria del Portogallo, madre di Ranuccio.

 

 

Il testo di Marco Liberato è inserito nell’iniziativa  “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.

 

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