L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… la Galleria fotografica di Mimmo Jodice
Viene naturale chiamarlo “Maestro” mentre lo si incrocia sorridente con la sua folta chioma bianca, al fianco della sua eterna musa e compagna di una vita, la moglie Angela.
Mimmo Jodice non è solo un Maestro con la M maiuscola, ma un gigante umile che ha dato dignità di ‘arte’ alla Fotografia.
Un figlio del rione Sanità, con i piedi ben saldi nella sua Napoli e lo sguardo perennemente curioso sul mondo.
Con le sue foto ha immortalato i protagonisti e i momenti cruciali della scena artistica internazionale.
Per la rubrica “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta…”, Giovanna Bile dell’Ufficio mostre del Museo e Real Bosco di Capodimonte ci fa conoscere la collezione che il Maestro ha donato al nostro museo.
Potrebbe essere considerata un’enciclopedia dell’arte contemporanea a Napoli la raccolta di 52 fotografie di Mimmo Jodice, scattate tra il 1968 e il 1988 e dal 1996 parte della collezione permanente del Museo di Capodimonte.
È la testimonianza diretta della portata internazionale delle energie artistiche confluite a Napoli nel corso di un ventennio.
Qui arrivarono da Warhol a Beuys, da Nitsch a Merz, da Burri a Kounellis, ma anche Alfano, Longobardi, Pane, De Dominicis, Pistoletto, Kiefer, Oppenheim, Alighiero & Boetti e altri ancora.
In realtà, però, rivela molto di più.
Affiora, infatti, lo sguardo critico di un artista che compone, sceglie i tempi e le modalità di scatto, in stretta, strettissima connessione con chi si trova davanti.
Come egli stesso racconta nell’introduzione alla pubblicazione Mimmo Jodice. Avanguardie a Napoli (Milano 1996) al critico d’arte Bruno Corà:
“Era facile trovarsi durante le riprese a dover ridiscutere l’inquadratura con il concorso dell’artista, oppure scoprire aspetti e situazioni non immaginate che potevano diventare altrettante possibilità fotografiche. Realizzare una fotografia voleva dire in molti casi affrontare un’esperienza ricca e intensa”.
Nei primi anni Sessanta Mimmo Jodice è un giovane onnivoro sperimentatore d’arte.
La sua formazione da autodidatta si è alimentata di pittura, scultura, teatro approdando poi alle prime lavorazioni in camera oscura dove testa, con l’uso di oggetti e ingranditori, tutte le potenzialità dei mezzi tecnici e degli elementi chimici.
La fedele Hasselbland 500 C., la macchina fotografica con cui ha prodotto la maggior parte delle sue fotografie, arriva un po’ dopo.
Del 1968 è l’inizio della collaborazione con Lucio Amelio, che tre anni prima aveva fondato la galleria Modern Art Agency e più tardi avrebbe lanciato l’appello per costituire la collezione Terrae Motus, emblema di riscatto dopo il drammatico terremoto in Irpinia del 1980.
Ma sono rapporti stretti anche quelli con i galleristi Peppe Morra, Pasquale Trisorio, Lia Rumma.
Le immagini che derivano da questa serie di relazioni raccontano anche del profondo cambiamento che ha subito la poetica di Jodice nel corso degli anni: si potrebbe individuare come spartiacque la pubblicazione del volume Vedute di Napoli (Milano 1980), alla quale seguirà l’omonima esposizione di Villa Pignatelli.
È qui che inizia la ricerca di un tempo sospeso e assoluto e di uno spazio in cui l’uomo e il suo protagonismo tendono a scomparire.
In Autoritratto con Emilio Notte (1972) è ancora forte la citazione del lavoro in camera oscura con una composizione che nella sovrapposizione di angoli visuali differenti confonde la fisionomia dello stesso Jodice con quella del maestro pugliese.
Herman Nitsch “45° azione” (1974) è ancora dominata dall’eco del filone etnoantropologico, che ha caratterizzato la produzione fotografica napoletana degli anni Settanta e che converge nella pubblicazione Chi è devoto. Feste popolari in Campania (Napoli 1974), con i contributi di Roberto De Simone e di Carlo Levi: la performance di Nitsch potrebbe rientrare a buon diritto tra alcune immagini di esasperato fanatismo scattate durante la festa della Madonna dell’Arco.
L’approdo ad uno spazio metafisico è invece più evidente in Tony Cragg, “Terrae Motus” (1983) e in Michelangelo Pistoletto, “Terrae Motus” (1983).
Nella prima fotografia la scelta della luce contribuisce a rendere straniante la presenza di tre sedie rustiche coperte da macigni in contrasto con gli affreschi di Villa Campolieto.
Nella seconda, invece, si consuma quell’inganno per l’occhio, già proposto in Vedute di Napoli, in cui l’architettura reale si confonde con specchi o pannelli dipinti.
L’amore di Mimmo Jodice per il Museo di Capodimonte, al quale si deve questa importante donazione, è in realtà nato ben prima del 1996 quando, al buio e in solitudine, con una piccola torcia, cercava e fotografava espressioni e gesti tra i dipinti dei maestri del Seicento napoletano.
Ne nacque una mostra allestita a Villa Pignatelli nel 1985 dal titolo Un secolo di furore. L’espressività del Seicento a Napoli , una delle rarissime incursioni di Jodice nel colore.
Ma questa è un’altra storia.
Il testo di Giovanna Bile è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
Della stessa rubrica puoi leggere:
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Gli scarti di fabbrica della Manifattura di Capodimonte di Maria Rosaria Sansone
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